Tutti proviamo tristezza, quanto è difficile accoglierla?
Per parlare di tristezza ci serviremo di un albo illustrato edito da Sassi Editore “Un rifugio dentro di me”, scritto da A. Booth e illustrato da D. Litchfield.
“Tristezza è venuta a trovarmi, e così ho deciso di crearle un rifugio”, ecco come ha inizio questa storia, un incontro delicato tra un bambino e la sua Tristezza.
Ma che cos’è la tristezza?
La tristezza è un’emozione primaria, questo significa che è biologicamente radicata e trasversale in ogni cultura. Inevitabilmente, sin da piccoli, tutti proviamo tristezza.
“Smetti di piangere che poi rattristi anche me”, “Asciuga subito quelle lacrime e trova qualcosa di divertente da fare”, “Dai, usciamo che così ti distrai un po’”; ecco solo alcune frasi che qualche volta ci è capitato di ricevere o di dire per bloccare questo sentimento.
Eppure questa emozione ha molteplici funzioni:
- attiva nelle figure di accudimento e nelle persone per noi significative vicinanza, aiuto e sostegno;
- promuove raccoglimento e riflessione;
- aiuta nel constatare la presenza di qualcosa che non ci soddisfa promuovendo anche il cambiamento;
- permette di percepire la mancanza di qualcosa o di qualcuno.
Nonostante sappiamo che la tristezza è un’emozione fisiologica con un ruolo importante, rimane davvero complesso accoglierla e accettarla. La tendenza a silenziarla o, addirittura, ad annullarla può essere motivata principalmente da due fattori. Innanzitutto, perchè è un’emozione che pone l’individuo che la sperimenta in una posizione passiva; la tristezza ci rallenta, fino ad immobilizzarci, non è possibile agirla. Questo porta ad un senso di impotenza e di perdita di controllo che ci allarma e in cui è complesso rimanere. Talvolta spinge anche a svalutarsi. Anche chi ci è accanto vedendoci tristi può percepirsi impotente e per questo fatica a connettersi a questo vissuto, cercando piuttosto soluzioni pratiche per cambiarlo.
In secondo luogo, la cultura in cui siamo immersi spesso considera l’espressione della tristezza come un sintomo di debolezza. Il timore di risultare meno interessanti o di essere valutati negativamente dalla società ci spinge a nascondere l’emozione; questa dinamica avviene soprattutto nei contesti ad alta competitività (es. sul lavoro, a scuola, ecc.).
Ciò che dovremmo fare è invece imparare ad entrare in contatto con questa emozione privata e intensa, accettarla e autorizzarla, proprio come ci insegna il bambino protagonista della storia.
“Sarà un rifugio accogliente in cui si sentirà benvenuta”, “Perché questo sarà il rifugio per la mia Tristezza, dove potrà rimanere, perché è giusto così.”
Non bisogna essere impauriti da questo vissuto, ma invece viverlo e approfondirlo nel qui ed ora per cercarne il significato, la sua ragione d’essere, il messaggio che ci vuole comunicare. È necessario sapersi immergere ed entrare in contatto con questa parte più profonda di noi, tornandoci tutte le volte necessarie per meglio comprenderla.
“A volte farò visita alla mia Tristezza nel suo rifugio tutti i giorni. Ogni ora, se necessario.”
Pensare che è un momento transitorio e che quindi, anche se intenso, passerà e finirà può aiutarci ad accettare la compagnia di Tristezza.
“Altre volte sarò troppo impegnato per andare a trovarla. Ma andrà bene lo stesso.”
Riuscire a comprendere l’importanza di questa emozione e conseguentemente ad autorizzarla ci permetterà di conoscere una nuova parte di noi stessi, arricchirci e migliorarci.
“Posso farle visita quando ne ho bisogno. Ogni volta che mi chiama. E, quando vuole, lei potrà uscire dal suo rifugio e prendermi per mano. E guarderemo il mondo e scopriremo quanto è meraviglioso. Insieme.”
Abbiamo dunque compreso che la tristezza di per sè è fisiologica. Ogni emozione diventa un campanello d’allarme quando la sua intensità diventa tanto alta da prendere il sopravvento ed ostacolare la persona nella conduzione delle routine quotidiane, nella pianificazione e nel raggiungimento di obiettivi.
L’autrice del libro è stata ispirata dalle parole di una donna ebrea vittima dell’Olocausto che scrisse:
“Date al dolore tutto lo spazio e il rifugio dentro di voi che si merita, perché se ciascuno sopporterà il dolore con onestà e coraggio, la pena che ora affligge il mondo si attenuerà. Ma se, invece, riserverete lo spazio dentro di voi all’odio e alla vendetta – da cui nascerà nuovo dolore – allora la pena, in questo mondo, non cesserà mai. Se avrete dato al dolore lo spazio che esso richiede, allora potrete veramente affermare: com’è bella e ricca la vita!”
Esther Hillesum
Dott.ssa Gloria Plati
(Psicologa e psicoterapeuta in formazione)